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In Italia le imprese sono un affare di famiglia

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Una delle maledizioni di chi cerca lavoro è che, in Italia, le aziende sono un affare di famiglia.

Il Corriere Economia di questa settimana, con un articolo a firma di Isidoro Trovato (“Aziende in deficit di talenti”), ha riacceso il faro su quell’enorme fetta del capitalismo nazionale che vede nella parentela la via maestra per l’accesso ai gangli vitali del controllo delle società.

Per raccontare questo fenomeno, le statistiche raccolte dall’osservatorio Aub Bocconi sono un punto di partenza fondamentale.

Il terzo rapporto del centro studi, pubblicato nel 2011, mostra che delle 7mila aziende che superano i 50 milioni di fatturato, il 57% è a controllo familiare. Nel 18% di queste società nemmeno un consigliere d’amministrazione è scelto all’esterno della cerchia dei parenti. Nelle altre, riporta l’Aub, ce n’è “almeno uno”. Se si guarda alle piccole imprese, quattro volte su dieci il cda è interamente occupato dalla famiglia di riferimento.

Il Corriere riporta inoltre che nel 57% delle aziende italiane anche l’amministratore delegato fa parte del “clan”. Ovviamente, soprattutto nelle società di piccole dimensioni, spesso si tratta proprio del fondatore e principale azionista.

Il rapporto della Bocconi sottolinea che, delle donne presenti nei cda delle imprese medio-grandi, il 95% è laureato. Ma se si guarda a chi ha legami di parentela con la proprietà, la quota scende al 60%. Insomma, con nessuna sorpresa, l’indagine dell’Aub rivela che i legami di sangue contano più del curriculum.

Certo, ben pochi studiano da consigliere d’amministrazione. E non è detto che in queste società la massa delle assunzioni sia improntata al criterio del nepotismo. Allo stesso modo, azionariato diffuso e manager esterni non sono sufficienti a fare da argine contro le raccomandazioni.

Se l’importanza della parentela nel mondo del lavoro è giustamente vissuta come una cappa soffocante, le aziende familiari hanno i loro meriti. In quelle con più di 50 milioni di fatturato, tra il 2007 ed il 2009 il numero di dipendenti è aumentato del 12%. Negli stessi anni, a causa della crisi, le filiali italiane delle multinazionali hanno tagliato il personale del 4%, e le aziende controllate da fondi di private equity del 14%.

Cosa ci insegna questo dato? Che le imprese di famiglia sono più innovative e dinamiche delle altre? Presumibilmente no.

I giornali ci regalano continuamente storie di società familiari che non sentono la crisi grazie a rapporti privilegiati con la politica – locale e non solo.

Sui grandi numeri, probabilmente sono più significativi i racconti di piccole aziende che tirano avanti in condizioni estreme, consumando i propri risparmi (che siano in una banca italiana o “al sicuro” in svizzera) per pagare i debiti, perché chiudere significherebbe ritirarsi a vita privata e licenziare amici e parenti.

Tutt’altra vita rispetto ai fondi di investimento, che possono chiudere un’attività ed aprire dall’altra parte del mondo senza battere ciglio.

twitter@pfrediani



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